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Zio Milione e i uregg del Barbamichali. Una storia greca

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di Gino Cervi

Questa, se avete voglia di leggerla, è una storia vera. La conoscevo da molti anni, ma l’avevo quasi dimenticata. L’ho riascoltata l’altra sera a cena da chi la sapeva meglio di me. Mi è venuto voglia di scriverla anche perché domani, 25 gennaio, in Grecia si va a votare. E questa, in qualche modo, è una storia greca. Di settant’anni fa. Ma che racconta ancora molte cose.

Si chiamava Emilio Ciceri, ma per me era lo zio Milione. Milione perchè era grande e grosso, tanto più grande e più grosso ai miei occhi di bambino piccolo e magro. Milione come un libro di avventure.

Arrivava la domenica pomeriggio insieme alla zia Emilia, la mia zia più bella. Oppure, qualche volta durante la settimana, con un bel Moto Guzzi scoppiettante. Si andava a passeggiare per i campi. Mi insegnava a cogliere i luartìs: «Te védet, Ginetto? Questi chì hin bun per una bèla fritada, o un bel risott». Oppure si andava in cerca di un’erba brusca dal cui gambo tirava fuori un lattice che, diceva, guarisse da porri e verruche. Lui, di verruca, ne aveva una sul dorso della mano: si strofinava l’erba brusca, ma la verruca l’era semper lì.

Di domenica pomeriggio, alle 15.45, ascoltavamo i secondi tempi delle partite al transistor che gracchiava “Tutto il calcio minuto per minuto”. Lo zio Milione era del Milan – come poteva altrimenti? – e mi raccontava di quando da giovane giocava a pallone.

Calcio di provincia, roba dura. Centravanti di sfondamento. Gli piaceva raccontare di quando correva verso la porta con un paio di difensori aggrappati alla maglia o ai pantaloncini. Io ascoltavo e lo vedevo trasfigurarsi nelle sembianze del mio Nordahl privato. Gunnar Nordahl, il “Pompierone svedese”, che mi sembrava di aver sempre conosciuto, almeno da quando aveva preso il posto di eroi e cavalieri nelle favole che mi raccontava la mia mamma, appassionata milanista di fede gre-no-liana. Quei pomeriggi appartenevano però ormai agli anni di un Rivera declinante. “Zero a zero anche ieri ‘sto Milan qui”, senza contare quel 20 maggio del 1973, quando piansi davanti all’autoradio chiuso dentro a una 128 Coupé verde bottiglia. Mi consolavo allora coi racconti dello zio Milione centravanti.

Insomma, tra fòlber o risott, io pendevo dalle labbra e dai racconti dello zio Milione. Qualche volta avevo il sospetto che le sparasse grosse. Già: per questo, in famiglia, il suo soprannome era ScasègnaMadonn. Intraducibile, però si capisce.

Lo zio Milione a Valimi, sulle montagne della Corinzia, nel maggio 1943, quando ancora portava la divisa del 303° Reggimento della Divisione Piemonte. Pochi mesi dopo, dopo l’8 settembre, avrebbe combattuto a fianco dell’Esercito popolare greco di Liberazione.

Tra tutte, la storia che più mi piaceva ascoltare era una storia greca. Lì l’aveva proprio sparata grossa, e non era un modo di dire. Classe 1922, lo zio Milione era arrivato ad Atene nella primavera del 1941, con la Compagnia Mitraglieri del 303° Reggimento della Divisione Piemonte. Come tanti giovani della sua leva, aveva fatto in fretta a capire che lì “reni da spezzare” non ce n’erano proprio. Dopo qualche mese nella capitale, venne trasferito ad Argos. E l’8 settembre dovette ringraziare – e lo fece per tutta la vita, tornando poi a trent’anni di distanza, a trovarla e ad abbracciarla – una famiglia di macellai, i Marlagoutzos, che lo tennero nascosto in casa per qualche giorno, a rischio della loro stessa vita. A fine settembre, lo zio Milione raggiunse i partigiani sulle montagne dell’Arcadia, per poi venire arruolato nel 6° battaglione Koryntìas-Argolìdas dell’ELAS, l’Esercito popolare greco. E con loro rimase a combattere fino alla Liberazione nell’ottobre 1944.

Alla fine della primavera del 1944, il 6° battaglione rimase accerchiato dall’esercito tedesco nelle montagne della Korinzia. Ogni giorno che passava la morsa si faceva sempre più stretta. A causa della presenza di un monomotore Fieseler Storch – una “Cicogna”, come veniva familiarmente chiamato – ogni tentativo di fuga, sugli scabri sentieri di montagna, veniva intercettato, e quindi vanificato. Non restava che una soluzione. Impallinare la Cicogna.

«Ghe pensi mì», disse un giorno lo zio Milione, e chiese il permesso al comandante del battaglione, Stéphanos Arxos, un giovane ingegnere comunista. Il comandante disse di sì.

Làfka era un villaggio che chiudeva la valle lunga e stretta, dentro la quale, per la sua attività di ricognizione, la Cicogna avrebbe dovuto infilarsi volando a bassa quota. Lì, c’era un vascone di cemento per l’abbeveraggio delle bestie. Era mattino presto quando lo zio Milione scelse proprio quel posto per piazzare la mitragliatrice, una Breda ’37. Per ottenere un’inclinazione di tiro ideale, chiese al Barbamichàli, lo zio Michele, suo compagno di battaglione, di sdraiarsi sul bordo della vasca. La sua schiena avrebbe fatto da piattaforma inclinata per la mitragliatrice. Il povero Barbamichàli si prestò: protetto alla bell’e meglio da un sacco di iuta, si vide caricare addosso il treppiedi e poi la Breda, circa 40 chili di ferro e fuoco sulla schiena. Quindi aspettarono. Il suono del ricognitore non tardò a farsi sentire. Imboccò la valle e iniziò a risalire, lento e circospetto. Non abbastanza però per non trovarsi d’un tratto di fronte all’improvvisata contraerea. Lo zio Milione non si fece pregare e gli liberò contro un intero caricatore da venti, riuscendo a colpire il pilota. Dopo qualche sussulto, la Cicogna venne giù di schianto.

Qualche giorno dopo il 6° Battaglione dell’ELAS poté trovare la via di fuga dalle montagne accerchiate dai tedeschi. Se la cavò anche Barbamichàli, a parte qualche bruciatura sul coppino, a causa il ritorno di fiamma della Breda, nonostante i sacchi di juta. Ricordo che lo zio Milione sbrigava così la faccenda dell’abbattimento: «La volta che al Barbamichàli g’ho brusà i uregg!». Al Barbamichàli, maledizione!, andò peggio qualche tempo dopo. Catturato durante un rastrellamento, finì appeso per la gola a un gancio da macellaio. Lo vide così, lo zio Milione, e non se lo tolse mai dalla testa. Mio cugino Gigi racconta che, anni dopo, quando a Milano, al cinema Plinius, andarono a vedere Zorba il Greco, lo zio lasciò la sala improvvisamente: nella scena in cui Zorba suona il sanduri all’interno della sua casupola, aveva visto sullo sfondo un gancio da macellaio.

Ma non si dimenticarono di Emilio neppure i partigiani greci. Cinquant’anni dopo il “fatto di Làfka”, il comandante Arxos e qualche vecchio compagno si ricordava e raccontava ancora di «O’ italòs palikari pou éxi rìxi ena ghermanikò aeroplano», dell’italiano in gamba che aveva tirato giù un aereo tedesco.

Così come oggi, alla vigilia delle elezioni greche, a me piace ricordare del mio zio Milione che assomigliava a Nordahl e di quella volta che al Barbamichàli el g’ha brusà i uregg!

 

Grazie ai miei cugini, Gigi Borgomaneri, figlio dello zio Emilio, e a Walter Ravizza, che stava aggrappato sulla sella del Guzzi.


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